Mattina (e sconforto) a Leopoli

 

Di Natalia Matolinets
Traduzione di Alessandra Bertuccelli

 
 
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Mattina (e sconforto) a Leopoli

“Sei pronta adesso?” chiede l’app per lo yoga la mattina.
Ormai lo sei sempre, in ogni momento. Pesanti bombardamenti ti svegliano in piena notte. La casa trema, lo specchio sul muro riflette i bagliori. Il cielo è incendiato come se stesse per fare giorno. Cominci a tremare. Vorresti respirare, ma sul petto hai come un masso. Il punto, per così dire, sicuro del tuo appartamento è minuscolo, gelido. Stai in ascolto di ogni rumore, anche se IL rumore non è qualcosa che ora puoi non notare. Lo senti ancora. E ancora. E sai che, ovunque, in ogni fuoco d’artificio, lo sentirai. Ancora. E ancora.
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Mattina. Scorri le fotografie sul telefono. Sai di chi è questa casa. La casa di un tuo amico. C’è un caffè sull’angolo lì vicino. Ci vai a scrivere le tue storie e a goderti l’espresso tonic, perché è buono, e poi il posto è spazioso. Mi sa che non ce ne saranno più di caffè. Crei questo spazio sicuro “Non ci prenderò più il caffè”. Come se fosse una cosa importante. Scorri le fotografie. Ancora. E ancora.
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Sei pronta adesso? Può iniziare da un momento all’altro.

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‒ So, life in Lviv is normal? ‒ chiede una guida polacca.
‒ Lviv is relatively safe, right? ‒ chiede una cameriera in Grecia.
‒ It’s getting better in Lviv, yeah? ‒ chiede un turista a Praga.
‒ No.
Rispondo, sbattendomi inutilmente per spiegare che questa mappa rossa significa allarme aereo, e che i missili possono comunque raggiungere Leopoli, e quand’è così, le finestre di casa iniziano a tremare, io me ne sto nel corridoio, e, no, di spazi sicuri non ce ne sono, la notte c’è il suono delle sirene, tutta l’estate, tutte le notti, a volte non ha nemmeno senso coricarsi, la mappa è inondata di rosso, a volte anche di giorno, e può succedere più volte nell’arco della giornata. Lviv is not safe. Nowhere is safe in Ukraine.
Ma poi la mattina mi alzo e vado a prendermi un toast con avocado e caffè filtrato. E per tutti questa è la cosa più sorprendente. Ma come, la notte explosions e missiles, e la mattina vai a farti un caffè? Com’è possibile? Non lo so. Dico qualcosa del new normal, che tanto normal non è. E il caffè aiuta, perché è una cosa così basilare, così comune, così consueta. Come lo era prima del 24 febbraio. Ora noi i giorni li contiamo così: prima e dopo quella data. Nient’altro ha senso.
Nel museo della Seconda guerra mondiale a Gdańsk sono esposti la porta di un rifugio antiaereo, il modellino di un treno per il trasporto ai campi di concentramento, e un ottuagenario manuale intitolato “Cosa fare in caso di allarme aereo”. È un’immagine della guerra, un’immagine comprensibile, è abbastanza distante perché ognuno possa farsi un’idea generale.
Questa è la storia ormai fissata e preservata meticolosamente nelle sale dei musei, in milioni di testi, in brandelli di memorie tragiche, terribili.
Forse un giorno avremo un museo con le nostre storie:
“Il mio feed di Facebook ora sembra un obitorio”
“Ho dovuto buttare via i vestiti che indossavo nel rifugio perché è impossibile lavarli”
“Non riesco ad andare all’ufficio postale oggi. C’è il fottuto allarme antiaereo, per la quarta volta”
“Di notte c’è stato un bombardamento tremendo, ma al mattino ci aspettava comunque il lavoro, perché le scadenze sono scadenze”
“Quest’estate ho lavorato in un palazzo istituzionale mezzo distrutto da un’onda d’urto”
“Durante i blackout ho visto la Via Lattea per la prima volta”
“Avevo paura dei fuochi d’artificio in Bulgaria perché fanno un rumore uguale alle esplosioni”
“Quell’inverno andavamo a lavorare in un caffè a lume di candela perché a casa non avevamo né l’elettricità né il riscaldamento, e al caffè perlomeno faceva caldo”
“Dicevamo scherzando che l’aurora boreale erano in realtà test nucleari”
La vita in tempo di guerra non è sempre terribile o tragica, anche se lo è. A volte è come vivere un inconveniente dopo l’altro, e gli inconvenienti si accumulano, giorno dopo giorno. A volte è come una costante tensione che non si può eliminare. A volte è un buco nero dentro di te, che cresce e divora il tuo senso di sicurezza. A volte è una rabbia silenziosa. Un grido strozzato in gola. Una parete di vetro, una visione offuscata, tutto questo, insieme.
Con il passare del tempo, quando mi chiedono come si vive in guerra, io rispondo: “È difficile spiegarlo, perché le nostre esperienze sono troppo diverse.” Ma lo racconto comunque.

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‒ Ma si è trattato di un solo missile, giusto? ‒ un mio amico sta disperatamente cercando di capire cosa è successo durante l’ultimo bombardamento.
‒ Sì. Solo uno, ‒ mi limito a confermare questo dato di fatto.
Qui le parole non aiutano. Uno è un numero così piccolo, quasi zero, quasi niente.
Ma
Un missile colpisce, ne basta uno, solo uno…
… perché non resti niente dopo.
Dentro mi sale la rabbia.
Dire un solo missile è così sbagliato perché tutto quello che un solo missile comporta è eccessivo.
Un solo missile è già più di quanto serva nell’arco di una vita.
Ma
Non posso fare a meno delle parole.
Così dico “Sì. Solo uno” e aggiungo “Sto bene”
Perché sono viva. E questo oggi equivale allo “stare bene”.
È un giorno in più. Uno è un numero così piccolo.