La fuga

La fuga

Di Maryna Bandarenka
Traduzione di Alessandra Bertuccelli
 

 
Katja attaccò e si lasciò scivolare lungo il muro fino al pavimento. Le gambe non le reggevano. Il sordo orrore divorante che già da un anno le abitava in petto era dilagato nel suo corpo.

“Domani finisco in galera.”

Il gatto le strusciò la testa sul fianco con insistenza. Katja sollevò a stento la mano e affondò le dita nella soffice pelliccia.

“Mio buon Keks.”

Il gatto faceva le fusa come un piccolo motore acceso. La capacità di pensare stava gradualmente ritornando. Mi serve un consiglio. Raccolse il cellulare dal pavimento.

“Zio Serëža, sono Katja. Ho un problema. Sì, vengo.”

Nonostante la giornata lavorativa fosse al culmine, il traffico era molto intenso. Il taxi si trascinava da un ingorgo all’altro. Katja sfogliava meccanicamente le pagine dei canali d’informazione. Deformazione professionale, come diceva sua madre. Arresti, perquisizioni. Perquisizioni, arresti. E, come il finale di una brutta commedia, lunghe pene detentive. Cinque, sette, dieci, quindici anni.

Il taxi inchiodò. Di nuovo un ingorgo. Lei guardò fuori dal finestrino. Quel ponte. Lo stomaco si contrasse violentemente, le seccò la gola. Un anno fa, proprio qui, su questo ponte, lei, Katja, una ragazza casalinga, e i colleghi della redazione erano finiti sotto il fuoco delle granate stordenti. Era stata la sua prima uscita sul campo.

Inspirò profondamente, poi espirò lentamente. Il tassista guardò di sbieco nello specchietto retrovisore, ma non disse nulla. E andava bene così. Non era né il momento né il luogo per parlare con uno sconosciuto. Neppure se sulla schermata del telefono di questo sconosciuto c’erano gli stessi canali che seguiva lei.

L’ufficio di zio Sergej si trovava in una zona tranquilla del centro, in un edificio anteguerra. Lo zio la stava già aspettando su una panchina. Con quel suo immutabile completo a tre pezzi sembrava un masso coperto di muschio con la pelata che splendeva al sole.

“È una bella giornata oggi. Facciamo due passi?” chiese, alzandosi.

Camminarono per un po’ in silenzio, si sentiva solo il picchiettare del bastone sul marciapiede.

“Mi vogliono interrogare. Domani alle otto,” disse quasi con calma.

“Il mandato l’hai ricevuto?”

“No,” scosse la testa, i riccioli rossi le sfiorarono il collo. “E se non ci andassi? Io non sono nessuno. Che se ne fanno di me?”

“Allora verrebbero loro a prenderti. Giornalisti arrestati? È cosa certa.” Zio Serëža si fermò, appoggiandosi al bastone. La guardò negli occhi. “Katjuša, per loro, nel migliore dei casi, sei solo una persona che ha partecipato alle proteste e, nel peggiore, potresti anche essere indagata in un caso penale. E quel tuo collega, o come si chiama, si è già fatto interrogare.”

Katja trasalì. Sì, si era fatto interrogare. Era già apparso un video dove Vanjuša, malconcio, diceva farfugliando davanti a una telecamera quanto fosse dispiaciuto per aver coordinato le proteste.

“La tua mamma ha un cuore. Hai pensato a come verrà in aula ai tuoi processi? E ora avvocati indipendenti non se ne trovano.”

“E lei allora?”

“Katjuša, sono troppo vecchio per potermi permettere di perdere la licenza. Per non dire che se finissi in carcere, non ne uscirei vivo.”

Per un po’ non dissero nulla. Le foglie cadute frusciavano sotto i piedi. Lì non erano ancora arrivati quelli della pulizia stradale, presi com’erano a lustrare il centro giorno e notte, rendendolo asettico.

“Devo togliermi di mezzo.”

“Sì. Te lo dicevo da tempo, ma tu eri troppo presa da dovere, amici, compagni,” disse, tirando fuori il telefono. “Ti do il numero di una persona, ti aiuterà. Prendi solo quello che puoi portare. E per favore, non fare tardi. Domani non dovrai essere qui.”

Katja annuì.

“Va bene,” Sergej Nikolaevič strizzò gli occhi guardando il sole. “Un ottobre inquietante quest’anno, ma bellissimo.”

La città fiammeggiava di un giallo cremisi. Ardevano i parchi e le piazze, i viali e i silenziosi cortili dei condomini. Il vento spazzava gli ampi viali, danzava con le foglie cadute negli enormi spazi sovietici deserti. Una città perfetta per le cartoline di propaganda. Una vetrina.

In taxi si messaggiò con la persona che le avrebbe fatto da guida: si sarebbero incontrati a una stazione di servizio su una via che portava fuori città. Mancavano tre ore. Poco e niente.

Si guardò intorno e varcò il portone in un lampo. Un piccolo appartamento che aveva ereditato da sua nonna. Era passato solo un anno da quando lo aveva ristrutturato. Cosa prendere? Come si fa a mettere tutta la vita in uno zaino? Il computer portatile, il passaporto, i soldi, la patente di guida, i calzini nuovi con i panda. Esitò, ma alla fine ci infilò una foto incorniciata: i suoi genitori da giovani, e lei da piccola. Felici. Suo padre era ancora vivo.

La serratura della porta d’ingresso scattò.

“Katjuša, sono io!” si sentì dal corridoio. “Ero andata a trovare zia Nataša e tornando mi è venuto in mente di passare da te. Ha nuovi modelli! Sapessi che belli! Ti voglio fare un bell’abitino per il lavoro, che indossi sempre i jeans.”

La mamma, bassa e fragile, ex ballerina, non aveva rinunciato ai suoi tentativi di far vestire bene Katja, di domare il casco dei suoi ribelli riccioli rossi.
“Sta’ dritta! Sei una ragazza!” era solita rimproverare alla Katja-adolescente, già alta come un’adulta, ma ancora impacciata come una bambina.

“Il giornalismo non fa per le ragazze”, sgridava la Katja-maturanda.

Katja non diceva niente e faceva le cose a modo suo. La testardaggine, oltre che l’altezza e i capelli rossi, li aveva presi da suo padre, uno stimato chirurgo consumato dalla polmonite dieci anni prima.

La mamma si affacciò nella stanza.

“Katja, stai andando da qualche parte?”

Nella stanza, dove di solito ogni cosa stava al proprio posto, pareva fosse passato un uragano. Un’accozzaglia di vestiti e documenti giaceva a strati uniformi sul divano e sul pavimento, da un cassetto aperto spuntava un mucchietto di calzini multicolori.

“Da amici,” rispose Katja, senza alzare la testa. Le venne detto più bruscamente di quanto non volesse. Seduta sul pavimento, era alle prese con la cerniera-lampo del suo zaino, pieno fino all’orlo. La cerniera opponeva resistenza, Katja si stizzì. Le mancava solo di rompere l’unico zaino grande che aveva.
“Katerina, tu non sai mentire. Dove stai andando?”

La cerniera alla fine soccombette, fissando insieme i bordi del tessuto saldamente tirato.
“Vuoi saperlo davvero?” Katja alzò la testa e guardò sua madre.

“Sono tua madre.”

“Mamma, tu non c’entri.”

“Katja, cosa è successo?” E dopo una pausa. “Sergej lo sa?”

Katja annuì brevemente. La mamma si lasciò cadere sul divano: “Sapevo che sarebbe andata così. L’ho sempre saputo. Ma perché ti sei messa a fare la giornalista?”

“Mamma, mammina,” Katja si accostò ai suoi piedi, strinse le dita gelide, la guardò negli occhi. “Non fare così, te lo chiedo per favore. Andrà tutto bene.”

“Katjuša…”

“Mamma, per piacere, pensaci tu a Keks. Devo andare.”

Si alzò, sollevò a fatica lo zaino e s’avviò in corridoio. La mamma le andò dietro. Katja si bloccò con la maniglia della porta d’ingresso in mano.

“È un affare pericoloso, Frodo. Uscire dalla porta.” borbottò.

“Katjuša?”

Si guardò indietro. La mamma, così cara e smarrita, era in piedi in mezzo al corridoio, le mani premute sul petto. Così piccola, così cara. Keks si sedette ai suoi piedi. Voleva abbracciare, stringere a sé sua madre, ma dopo, lei, Katja, non sarebbe più stata capace di andarsene.

“Ti voglio bene, mamma,” sussurrò Katja.

Spinse la porta e uscì. Il petto le bruciava.

Il cortile era immerso nel crepuscolo. Il vento asciugò rapidamente le lacrime. Prelevati tutti i soldi dalla carta allo sportello automatico, li infilò nella tasca interna della giacca. La città che amava così tanto. La città dove aveva trascorso la sua infanzia. La città che era diventata sua nemica. E voleva respirarsela quanto più possibile, ora che se ne stava separando.

Arrivò un po’ in anticipo. Il suo accompagnatore, un ometto grigio di età indefinita, la stava già aspettando. L’auto era all’altezza del padrone.

Rimasero in silenzio per tutto il tragitto. Suonava una canzone al registratore. Katja, anche se sentiva tutta la stanchezza di quella giornata, non riusciva a dormire. Giusto ieri stava pensando a cosa avrebbe indossato per il matrimonio dei suoi amici e che sabato sarebbe andata a prendere un caffè con le ragazze. Il cappotto invernale era rimasto in tintoria. E non aveva ordinato il cibo per il gatto. I resti della vita normale crollarono come uno steccato marcio e traballante. Dietro restarono l’amato appartamento, la madre, lo zio Serëža e Keks.

Prima percorsero l’autostrada, poi strade di campagna. Foreste e campi si avvicendavano. L’auto sballottava sulle buche. A un certo punto l’autista spense i fari.

L’auto si fermò di colpo vicino all’ennesimo campo spoglio.

“Va’ dritto attraverso il campo, attraversa il boschetto finché non esci sul fiume. Prendi un po’ a sinistra. Ci sarà un guado vicino a una betulla rotta,” disse l’autista.

“Un guado?” la sua voce suonava rauca dopo quel lungo silenzio.

“Sarà profondo fino al ginocchio. Attraversa il fiume e arrenditi alle guardie di frontiera. Chiedi asilo politico.”

“Lei non viene con me?”

“No. Io ti ho condotto fin qui. Andrai avanti da sola.”

“Quanto le devo?” Katja frugò nella tasca della giacca dove teneva i soldi.

“Niente. È già tutto pagato. Buona fortuna.”

“Grazie zio Serëža.”

Aveva indosso scarpe da ginnastica alte fino alla caviglia, che sprofondarono nella feconda terra arata, vi annegarono dentro. La terra sembrava sapere che un’altra sua figlia la stava lasciando. Il boschetto, anche se lentamente, si stava avvicinando.

La striscia nera del fiume era già visibile tra gli alberi. Ancora un pochino, e là, in un altro paese, non avrebbero più potuto raggiungerla.

“Ferma!”

Il grido la paralizzò, la bloccò sul posto. Tra gli alberi apparve una figura scura con una mitragliatrice. “Ecco fatto.” Questo pensiero le balenò in testa e annegò nel crescente panico.
“Cosa sta facendo qui?” chiese l’uomo in mimetica.

Lei guardò il fiume con impotenza.

“Si è persa?” chiese educatamente e, sogghignando, aggiunse: “Sta fuggendo?”

Lei annuì. Un nodo in gola non le permetteva di parlare.

“Mi segua,” l’uomo si voltò e si diresse verso gli alberi. Katja, come in un sogno,
gli andò dietro, muovendo a fatica le gambe. Per quanto tempo camminarono così, lungo il fiume, lei non avrebbe saputo dirlo. A un tratto “il mimetico” si fermò.

“Può passare di qui. Di punti poco profondi non ce ne saranno più.”

“Pa-pa-passare?”

“Dall’altra parte,” disse.

“Grazie”, sussurrò Katja.

“Guarda, io non ti ho visto.”

Sull’altro lato del fiume Katja tornò in sé. I jeans bagnati si erano appiccicati alle gambe, l’acqua sciabordava nelle scarpe da ginnastica. Katja si guardò indietro. La riva, separata dal fiume, nereggiava come un’ampia chiazza contro il cielo color inchiostro sorretto dalle cime degli alberi. Nero su nero. Anche là, un giorno, sorgerà il sole.